Analisi e riflessioni su “The Falling Man”, lo scatto mostra gli ultimi istanti di vita di una vittima dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001.
Esistono fotografie di fronte alle quali è impossibile rimanere indifferenti. Non si tratta di estetica, le immagini che davvero ci colpiscono esulano dall’essere semplicemente belle o brutte. La nostra mente, istintivamente, registra e memorizza ciò che trasmette qualcosa, che comunica un’emozione o racconta una storia. Questo può accadere in diverse circostanze, anche in base alle inclinazioni e al contesto culturale dell’osservatore; ad esempio succede quando un’immagine è molto ben composta, quando rimanda a fatti storici importanti o, ancora, quando porta con sé motivo di riflessione o discussione. The Falling Man è a tutti gli effetti una di quelle foto che, per tutti questi motivi, non si riesce a dimenticare.
La storia dietro lo scatto
La mattina dell’11 settembre il fotografo Richard Drew, reporter per l’associated press, stava fotografando un evento di moda, quando riceve una chiamata che lo avvisa di precipitarsi immediatamente al World Trade Center. Appena uscito dalla stazione metro più vicina, la situazione è drammatica. Le torri sono avvolte dal fumo, il rumore assordante delle sirene e delle urla disperate riempie l’aria e tutti corrono più lontano possibile da quell’inferno. Solo dopo qualche istante Drew realizza che le persone affacciate dagli edifici in fiamme non stanno semplicemente chiedendo aiuto o cercando aria. Prima del crollo di entrambe le torri, saranno circa in duecento a gettarsi nel vuoto per sfuggire all’agonia delle fiamme. Alle 9,41 l’obiettivo di Richard Drew incontra il volo di Jonathan Briley, scattando quella che diventerà una delle immagini simbolo di quel giorno.
La forza in questo scatto è, prima di tutto, nell’estetica. Potendola decontestualizzare dai fatti tragici di quella mattina, la foto ci apparirebbe quieta, quasi elegante. L’uomo sta precipitando, ma se non lo sapessimo potrebbe quasi dare l’impressione di volare; il suo corpo è leggero e sembra fendere l’aria come una freccia. Il suo abbandono ci suggerisce un’accettazione pacifica, come se stesse abbracciando un destino che non ha scelto ma al quale è ormai rassegnato. Chiaramente, si tratta di un’illusione dovuta all’equilibrio geometrico delle linee e a come queste guidano istintivamente il nostro sguardo ad una lettura armoniosa dell’immagine; circostanze del tutto involontarie, visto il gran numero di scatti e la confusione del momento. Lo stesso Drew parla della casualità della composizione, infatti si rese conto della particolarità dell’inquadratura solo una volta rientrato nel suo studio; ma ciò non toglie nulla alla sua forza.
Le reazioni, come ci sentiamo di fronte ad un uomo che muore
Il giorno dopo la foto apparve in diversi quotidiani, tra cui il New York Times, provocando diverse reazioni. Se in un primo momento venne accolta dagli editori per la sua altissima funzione reportagistica, poco dopo iniziò a destare disagi e le redazioni decisero, nel rispetto dei caduti e dei loro cari, di non mostrare più immagini che ritraessero le vittime nei loro ultimi istanti di vita. Ci sono voluti anni prima che immagini come questa venissero accettate e riabilitate, probabilmente il tempo necessario per metabolizzare l’accaduto e storicizzare l’attentato e tutto ciò che potesse raccontarlo. Ad ogni modo, la questione dell’etica fotografica è solo uno degli aspetti che ci colpisce in questa immagine: a quasi venti anni di distanza, questa foto non ha perso niente della sua potenza comunicativa.
The Falling Man è unica nel suo genere perché ci mette di fronte ad una situazione in cui possiamo facilmente riconoscerci. Non è un’immagine violenta, non ci sono spari, né sangue. La persona che abbiamo davanti, come la maggior parte delle vittime dell’attentato, non sapeva di essere in una situazione di pericolo quel giorno, al contrario stava vivendo un momento di quotidianità, credendosi al sicuro. Questa foto ci pone davanti alla paura intrinseca del terrorismo e provoca naturalmente un’empatia profonda, più di quella che si può provare di fronte ad un’immagine di guerra o di violenza. Metterci al posto di Jonathan Briley è più facile che mettersi al posto del miliziano colpito a morte di Robert Capa, così come è più istintivo chiedersi a cosa stesse pensando in quel momento, quale fosse il suo stato d’animo prima di saltare e, ovviamente, cosa avremmo fatto noi in quella situazione.
Cosa rimane di quel volo infinito...
Aldilà di qualsiasi voyerismo, vedere un uomo negli ultimi istanti della sua vita stimola una curiosità istintiva. Ci si chiede chi fosse quell’uomo, quanti anni avesse e se avesse avuto figli. È il bisogno primordiale di raccontarci una storia, dare un senso a quel che vediamo e, in questa terribile circostanza, rispondere all’empatia che ci abita. Ci sono voluti anni prima di conoscere l’identità dell’uomo che cade, ma sapere il suo nome non cambia il fatto che sarebbe potuto essere chiunque. Jonathan Briley rimarrà impresso nella storia come simbolo universale di impotenza di fronte al degenerare dell’odio, della violenza e della prevaricazione sugli innocenti.